Stefano Petrucciani
Karl-Otto Apel, che si è spento lunedì 15 maggio all’età di novantacinque anni, è stato uno dei più acuti e importanti filosofi della seconda metà del Novecento. Apel infatti, a differenza di molti altri scrittori di filosofia che vanno per la maggiore, era un vero filosofo. La sua lucidità di pensiero lo collocava su un piano decisamente superiore rispetto a tanti altri che pure hanno goduto di grande fama. Apel, come ha potuto verificare chi ha avuto la fortuna di partecipare a qualche suo seminario, aveva una passione profonda e autentica per il ragionamento filosofico: instancabile nel discutere e argomentare, anche in tarda età, apparteneva alla piccola schiera di quelli che si possono davvero definire maestri. Il suo percorso filosofico è stato caratterizzato da una straordinaria ricchezza e vastità di interessi. Nato nel 1922, aveva esordito con una grande monografia su L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo, da Dante a Vico (pubblicata nel 1963), mirabile sintesi di sapienza erudita e interpretazione teoretica. E, a partire da lì, gran parte della sua riflessione ha avuto come centro il linguaggio. Formatosi infatti nella grande scuola tedesca dell’ermeneutica, Apel ne dava però una lettura del tutto particolare: non andava nella direzione di Gadamer, rifiutava la curvatura dell’ermeneutica verso il relativismo o verso il pensiero debole, ma ricercava invece, partendo dall’indagine sul linguaggio, i principi irrinunciabili della razionalità critica e discorsiva, dotati di una valenza non solo teoretica ma anche etica. La sua posizione, in fondo, era molto lineare: nello stesso atto del discorrere, sosteneva, è immanente una pretesa di verità che non può essere liquidata nel senso dello storicismo o del relativismo, e alla quale il pensiero filosofico si deve attenere, pur nella consapevolezza che la verità non si possiede qui e ora, ma è piuttosto da intendersi come un punto limite, al quale potrebbe pervenire solo quella che Apel chiamava una “comunità ideale della comunicazione”.A partire da qui Apel ha sviluppato negli anni Settanta, in stretta cooperazione con Habermas del quale è stato collega a Francoforte, quella che entrambi hanno definito come un’etica del discorso. Essa si fonda sull’idea che ogni soggetto che partecipa a uno scambio discorsivo o argomentativo presuppone necessariamente il rispetto per ogni altro parlante e dialogante, per le sue pretese, interessi e bisogni. E’ nel linguaggio, dunque, che si deve ricercare l’autentico e profondo fondamento dell’etica, quello che sfugge sia alle filosofie scientiste, sia alle ermeneutiche relativiste. Nella difesa della ragione e del suo contenuto anche moralmente impegnato Apel era consapevole di andare decisamente controcorrente; e non temeva di parlare, provocatoriamente, di una “fondazione ultima dell’etica”, mentre la chiacchiera filosofica si cullava nell’idea del “sapere senza fondamenti” o nella demistificazione della volontà di verità come volontà di potenza. Sobrio e misurato come un bravo professore tedesco, Apel sapeva però essere anche radicale. Aprì un dialogo intenso con Enrique Dussel, il marxista che aveva trasformato la teologia della liberazione in filosofia della liberazione, e disse che questo incontro gli aveva ulteriormente aperto gli occhi sui limiti delle esistenti democrazie occidentali. Giustizia, co-responsabilità e solidarietà avrebbero dovuto essere i principi di una nuova etica planetaria sulla quale Apel (che era un autore di saggi più che di libri) ha riflettuto soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita filosofica.
(da Il manifesto, 15 maggio 2017)
Karl-Otto Apel (1922-2017). In memoriam
di GIORGIO CESARALE
Con Jürgen Habermas, Hans-Georg Gadamer ed altri filosofi, Karl-Otto Apel – recentemente scomparso all’età di 95 anni – ha rianimato la scena filosofica tedesca del secondo dopoguerra, proiettandola di nuovo ai vertici della ricerca internazionale. La sua proposta più originale, quella di determinare una “comunità illimitata di comunicazione” come standard di giudizio per le ingiustizie e le storture del presente, ha riavvicinato la democrazia alla filosofia.
In un libro di qualche anno fa, L’avventura della filosofia francese, Alain Badiou ha sostenuto che sarebbe esistito fra il 1943, anno di pubblicazione di L’essere e il nulla di Sartre, e il 1991, anno di apparizione di Che cos’è la filosofia di Deleuze e Guattari, un “momento” filosofico francese, paragonabile per ampiezza di respiro e novità tanto allo sviluppo del pensiero greco fra il V e il III secolo a. C. quanto alla stagione della filosofia classica tedesca, consumatasi fra il XVIII e il XIX secolo. Pur contenendo un’importante verità (lo sviluppo delle idee filosofiche procede più per accelerazioni e brusche sterzate che per accumulazione lineare e progressiva), tale affermazione non è esente da un certo carattere apologetico. Un modo per attenuare quest’ultimo è forse quello di allargare il campo di incidenza dell’affermazione, sforzandosi di reperire nella storia della filosofia un numero molto maggiore di “momenti” altamente creativi. Ci si potrebbe domandare, a questo proposito, se il recentemente scomparso Karl-Otto Apel (Düsseldorf 15 marzo 1922 – Niedernhausen 15 maggio 2017) non sia proprio appartenuto a uno di questi momenti. Con Jürgen Habermas, Hans-Georg Gadamer, Ernst Tugendhat, Dieter Henrich, Michael Theunissen etc., Apel ha rianimato infatti la scena filosofica tedesca del secondo dopoguerra, profondamente segnata dalla tragedia nazionalsocialista, proiettandola di nuovo ai vertici della ricerca internazionale. Anzi, si potrebbe dire che questo gruppo di pensatori ha provato a compiere qualcosa di ancora più decisivo: esso ha cercato di mettere in salvo il contenuto di verità presente nelle “scienze dello spirito” tedesche otto-novecentesche, filtrandone le acquisizioni alla luce della svolta anti- o post-metafisica nel frattempo occorsa nella filosofia del Novecento. Il punto di partenza dell’impresa teorica di Apel è stato infatti questo: come ricondurre a unità la prospettiva delle scienze empirico-analitiche con quella delle scienze ermeneutiche, umane, storiche? Come ricongiungere lo Erklären, lo “spiegare” delle scienze empirico-analitiche, che sussume casi sotto leggi dopo aver inaugurato un corso di esperienze ripetibili, al Verstehen, al comprendere delle scienze dello spirito, che presuppone piuttosto l’identità fra soggetto indagante e oggetto indagato, il colloquio “umanistico” dell’uomo con se stesso? La grande mossa filosofica di Apel, condivisa con Habermas, è stata quella di attingere nella rifondazione pragmatistica delle scienze, tentata da Peirce fra ‘800 e ‘900, la chiave per ripensare il rapporto fra “spiegare” e “comprendere”. Da Peirce, infatti, Apel ha tratto l’idea che le stesse scienze della natura non possono garantire validità alle proprie ipotesi se non combinano il rapporto “verticale” con la natura con quello “orizzontale” con gli altri uomini. È la comunicazione all’interno della comunità degli scienziati, la Community of Investigators di Peirce, che interviene insomma a validare da ultimo i risultati scientifici. Apel però estende la portata applicativa del ragionamento: qualsiasi pretesa soggettiva (scientifica, morale o politica) può ottenere validità solo se non sfugge alla possibilità di essere messa alla prova all’interno della “comunità illimitata di comunicazione”, all’interno cioè della stessa comunità umana come insieme di esseri pensanti e argomentanti. Non solo: poiché ogni comunità “reale” di comunicazione non riuscirà mai a includere tutti gli uomini, ed è costitutivamente penalizzata e paralizzata da interessi “particolari” di razza, classe e nazione, Apel ha ritenuto indispensabile avvicinare l’etica comunicativa per un verso alla psicanalisi e per altro verso alla marxiana critica dell’ideologia. Senza quest’ultime, l’etica comunicativa cadrebbe preda di quella “falsa coscienza” che sempre avvolge le operazioni teorico-pratiche degli uomini nel presente. È alla luce di queste esigenze che si spiega peraltro l’impegno dell’ultimo Apel a dialogare con i pensatori sudamericani della teologia/filosofia della liberazione (Enrique Dussel): solo un’etica davvero universale potrebbe impedire alla civiltà tecnico-planetaria di produrre ingiustizie e asimmetrie di potere.
Il coraggioso tentativo di riconciliare la democrazia con la filosofia, che rappresenta il nucleo di senso di tutta la posizione discorsivista, non deve però nel caso di Apel trarre in inganno: esso non porta affatto a un ridimensionamento di significato del gesto propriamente filosofico. Affermando infatti che il rinvio alla comunità ideale e illimitata di comunicazione è dimostrato dal carattere contraddittorio e autoconfutativo di ogni posizione che voglia essere valida pur sottraendosi alla discussione, Apel ha di fatto rinnovato la strategia hegeliana di fondazione di uno standard indipendente di validità (il “sapere assoluto”) attraverso la critica e la negazione determinata di tutte le istanze soggettive difettose e unilaterali. In Apel insomma, molto più che in Habermas, l’inscrizione della democrazia nella filosofia non segna la vittoria postuma della sofistica sul platonismo, ma la riproposizione della necessità di quell’atto riflessivo, da egli chiamato “riflessione trascendentale”, senza il quale la filosofia perde la radice della sua esistenza. È per averci ricordato questo, con rigore e tensione concettuali esemplari, che bisogna essere grati a Karl-Otto Apel.
(dal Rasoio di Occam-Micromega)
Marina Calloni, “La ragione non ha patria, ha semplicemente ragione”, Intervista a K.-O-Apel, in “Reset”, 1998, n. 51, pp. 86-88.
Rino Genovese, Per Karl-Otto Apel (1922-2017)
Enrico Morresi, In memoria di Karl-Otto Apel.