Tito Perlini (1931-2013)

Il 25 settembre 2013 ci ha lasciato Tito Perlini, già docente di Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dal 1987 al 2001.

Per il Seminario di Teoria Critica è stato un pioniere degli studi sulla Scuola di Francoforte, un modello di passione critica, autore di saggi e di lezioni tanto appassionanti quanto indimenticabili.

Ma in lui noi riconosciamo soprattutto un maestro e un amico con cui abbiamo condiviso tanti progetti e iniziative.

Alessandro Bellan e Lucio Cortella

Tito Perlini nasce a Trieste nel 1931. Conclusi gli studi ginnasiali, si iscrive alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Trieste, dove si laurea alla fine degli anni Cinquanta con una tesi sul Doktor Faustus di Thomas Mann. Dopo aver lavorato in azienda (come Ottieri e Volponi), nel mondo dell’editoria e della pubblicità (come Bianciardi), approda all’insegnamento liceale e solo negli anni Ottanta ottiene l’associazione a Ca’ Foscari per la cattedra di Estetica, mantenuta fino al 2001.
Le sue principali monografie si collocano fra la metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta: Che cosa ha veramente detto KierkegaardChe cosa ha veramente detto Marcuse e Utopia e prospettiva in György Lukács, tutti pubblicati nel 1968; Che cosa ha veramente detto Adorno e Lenin. La vita il pensiero i testi esemplari (1971) e Gramsci e il gramscismo (1974). Ma questi saggi, ormai introvabili, costituiscono solo una piccola parte dell’enorme attività pubblicistica di Perlini, condotta, oltre che su riviste specialistiche, anche su quotidiani (il manifesto, Il Secolo XIX) e vari settimanali.
Un semplice elenco delle sue amicizie delinea un quadro nitido della sua natura vitale e poliedrica, sperimentale ma sempre attenta alle trasformazioni dello Zeitgeist. Arduino Agnelli, Claudio Magris, Cesare Cases, Furio Jesi, Edoarda Masi, Giovanni Raboni, Ferruccio Rossi Landi, Elvio Fachinelli, Franco Fornari e, soprattutto, Franco Fortini mostrano la sua entusiastica adesione a una concezione non irregimentata e non settoriale della cultura e dell’impegno intellettuale. Spaziando dalla letteratura al cinema, dalla psicoanalisi alla musicologia, Perlini giunge infine alla filosofia grazie soprattutto all’esistenzialismo di Pareyson e di Paci.
L’incontro con il marxismo, la psicoanalisi e la Scuola di Francoforte fa inclinare i suoi interessi sempre di più verso la filosofia. Dopo i saggi dedicati a Lukács, comincia un progressivo distacco dalle tesi del pensatore ungherese sotto il segno della teoria critica di Adorno, Horkheimer, Benjamin, Marcuse e del pensiero utopico di Ernst Bloch. Per la rivista “Comunità” è fra i primi traduttori italiani di Habermas (“Odissea della ragione nella natura”, la sua unica traduzione); per la casa editrice romana Ubaldini introduce a un più vasto pubblico italiano il pensiero di Adorno, Marcuse e Lenin. Contemporaneamente intensifica l’impegno politico con la sinistra radicale, sia con appassionati interventi pubblici, sia attraverso la frequentazione del circolo psiconalitico di Fachinelli “L’Erba Voglio”.
Il pensiero di Tito Perlini oscilla fra una partecipazione all’effettività, alla Wirklichkeit, e la tensione a quell’altro dall’esistente, a quella horkheimeriana «nostalgia del totalmente altro» (o, blochianamente, del “non-ancora”) senza la quale ogni sguardo rivolto all’esistente si sfrangia e perde ogni verità.
Non a caso la sua interpretazione della teoria critica francofortese ha valorizzato soprattutto il lato utopico e messianico delle istanze contenute nel vasto e articolato corpus francofortese. Utopia contra lógos, si potrebbe forse riassumere, citando uno dei suoi numerosi saggi dedicati ad Adorno. Ed è il pensatore di Francoforte colui che maggiormente sembra incarnare l’ideale di filosofia di Perlini: non tanto per il suo negativismo dialettico, quanto piuttosto per aver colto la necessità di ripensare le possibilità dell’individuale e soprattutto dell’estetica nell’epoca della loro liquidazione. La teoria critica di Adorno è dunque impulso etico e utopico che si esprime al massimo grado nella coscienza inconciliata dell’arte, nella resistenza al reale tanto nelle opere di Joyce, Kafka e Beckett, quanto nell’arte al nero di Malevič e nella musica atonale di Berg. La conciliazione non può essere estorta o forzata, come voleva ancora il Lukács teorico del realismo. La ragione, nel mondo amministrato e accecato, dominato dalla razionalità strumentale, non può che criticare spietatamente se stessa, non già pretendere di fungere da istanza armonizzante e conciliatrice.
Per mantenere quella tensione tra effettività e alterità diviene allora in qualche modo necessario guardare anche oltre la tradizione della teoria critica che sembra avvitarsi in «una teoria rivoluzionaria senza prassi rivoluzionaria», un congedo dalla mera teoresi «incapace di congedarsi da se stessa», come sottolineerà Perlini negli ultimi saggi dedicati alla Scuola di Francoforte. Benché si tratti di tesi esposte anche da Krahl e dal giovane Habermas, la strada che intraprenderà Perlini per uscire da quelle che ormai giudica le insuperabili aporie del pensiero critico-negativo sarà del tutto diversa. Avvicinatosi alle posizioni antimoderne di Augusto Del Noce, Perlini tenterà, da laico, un confronto e una riappropriazione della tradizione religiosa e metafisica nell’epoca del postmoderno, della ragione cinica e del relativismo, riavvicinandosi, in un periplo compiuto, alle “considerazioni impolitiche” del suo amatissimo Thomas Mann.

Alessandro Bellan
Saggio di Tito Perlini su Adorno: “Il velo nero. Riflessioni sull’ultima produzione estetica di Adorno”. Intervento al convegno “Adorno e Heidegger” (Venezia, 22 marzo 2004)

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